Cambiamento climatico, conflitti e migrazioni: un circolo vizioso da spezzare

Scritto il 17/10/2025
da Redazione

Il cambiamento climatico non è soltanto una sfida ambientale, ma anche un moltiplicatore di tensioni sociali e politiche. In molte regioni del mondo la scarsità di risorse naturali come l’acqua, la terra fertile o le fonti energetiche acuisce rivalità già esistenti e può alimentare nuovi conflitti, soprattutto laddove le istituzioni sono fragili o incapaci di gestire la pressione ambientale.

 

Numerosi studi internazionali hanno dimostrato che il legame tra crisi climatica e conflitto non è lineare, ma dipende da fattori sociali, istituzionali e politici. Tuttavia, in contesti caratterizzati da povertà e fragilità istituzionale, gli eventi climatici estremi, come siccità prolungate, ondate di calore o inondazioni, aumentano il rischio di tensioni e migrazioni forzate. Secondo un rapporto della Banca Mondiale, entro il 2050 oltre 140 milioni di persone potrebbero essere costrette a spostarsi internamente a causa degli impatti del clima, in particolare in Africa subsahariana, Asia meridionale e America Latina.

 

La migrazione può rappresentare una forma di adattamento, poiché consente alle persone di spostarsi verso aree meno esposte e di ricostruire un equilibrio socioeconomico. Tuttavia, quando i flussi migratori sono improvvisi, massicci o mal gestiti, possono generare tensioni con le comunità ospitanti, accentuando la competizione per l’accesso a risorse, lavoro e servizi. Questo rischio è particolarmente alto in contesti dove la governance è debole e la distribuzione delle risorse è diseguale.

 

In molti conflitti contemporanei, come in Yemen o nel Darfur, le crisi ambientali si sono intrecciate con fattori politici e sociali, dimostrando che il clima da solo non causa la guerra, ma può fungere da catalizzatore. L’esito finale dipende dalla capacità delle istituzioni di rispondere in modo equo e inclusivo. Governi reattivi e sistemi di gestione sostenibile delle risorse possono trasformare la pressione climatica in cooperazione, mentre quelli inefficaci rischiano di amplificare la violenza.

 

Un ruolo centrale spetta al diritto e alla cooperazione internazionale. L’Italia, in questo senso, si è distinta come Paese innovatore: già dal 1998 ha introdotto forme di protezione per chi migra a causa di fattori ambientali. Alcuni tribunali hanno persino riconosciuto lo status di protezione umanitaria per motivazioni climatiche, un passo importante che unisce sensibilità ambientale e tutela dei diritti umani.

 

Per spezzare il circolo vizioso tra degrado climatico e conflitto, occorre quindi un approccio integrato che unisca adattamento locale, giustizia climatica e solidarietà internazionale. Non si tratta solo di contenere le crisi, ma di costruire comunità più resilienti, dove la mobilità umana non sia vista come una minaccia, bensì come parte di una strategia di sopravvivenza e rinnovamento.