I Mori dell’Orologio: quando un re di Tenerife arrivò in Serenissima.

Scritto il 04/09/2025
da Barbara Stolecka

Alzi lo sguardo in Piazza San Marco, proprio all’angolo settentrionale, e ti lasci catturare da un battito che non è un cuore ma un rintocco. Due figure scure, possenti, alzano le braccia e con un colpo deciso segnano lo scorrere del tempo. Sono i celebri Mori della Torre dell’Orologio di Venezia, e da oltre cinquecento anni accompagnano la vita della città.

Dietro quei bronzi però, secondo una suggestiva teoria, non si nasconderebbero solo l’ingegno e l’arte rinascimentale. Potrebbe esserci anche la memoria di un re venuto da lontano, dalle isole vulcaniche in mezzo all’Atlantico: Tenerife.

Tra il 1496 e il 1499, quando Venezia era nel pieno della sua potenza, fu eretta la Torre dell’Orologio, progettata da Mauro Codussi. L’edificio doveva impressionare chiunque giungesse in Piazza San Marco: un segno di prosperità, ordine e dominio sul tempo stesso. Al centro, un orologio astronomico che ancora oggi affascina con i suoi simboli zodiacali e i meccanismi ingegnosi. Ma ciò che colpisce di più sono loro, i due giganteschi bronzi che battono le ore con pesanti mazze. Da secoli vengono chiamati i “Mori”, per via della pelle scura, ma quella definizione potrebbe nascondere un passato molto più ricco di significati.

Nello stesso periodo in cui la Torre prendeva forma, l’Atlantico viveva momenti di grande trasformazione. Nel 1496, i castigliani completarono la conquista di Tenerife, l’ultima delle isole Canarie a cadere. I sovrani cattolici catturarono sette Menceyes, i re-guerrieri guanci che guidavano le popolazioni locali. Tra loro vi era Don Enrique Canario da Icoden, noto come Mencey Belicar, descritto nelle cronache come “il più famoso e il più bello”. Il suo destino fu diverso da quello degli altri: divenne un “dono diplomatico” per la Serenissima. Il viaggio di questo re sconfitto fu incredibile. Da Tenerife giunse a Barcellona, poi a Valencia, quindi attraversò il Mediterraneo fino in Tunisia e, infine, approdò a Venezia il 17 maggio 1497. Nello stesso anno in cui, guarda caso, lo scultore Paolo Savin plasmava i due Mori che ancora oggi battono le ore.

Ai veneziani del Quattrocento, quell’uomo dalle spalle larghe, dalla pelle ambrata e dai capelli ricci doveva sembrare una visione esotica. Li chiamavano genericamente “Mori”, ma i dettagli rimasti nei ricordi e nelle cronache fanno pensare a un ritratto più fedele del previsto. Le statue di bronzo, infatti, non vestono panni veneziani: hanno un’aria semplice, quasi primitiva, e soprattutto stringono in mano la sunta, una mazza pesante con estremità rinforzate, tipica arma dei Guanci. Un elemento troppo preciso per essere casuale. E allora, la domanda sorge spontanea: Paolo Savin prese ispirazione proprio dal Mencey di Tenerife per scolpire i Mori dell’Orologio?

Che l’ipotesi sia vera o meno, l’idea affascina perché perfettamente in linea con lo spirito della Serenissima. Venezia era un mosaico di popoli, un porto che accoglieva mercanti, viaggiatori e ambasciatori da Oriente e da Occidente. Perché non anche un re prigioniero proveniente dall’Atlantico? Se davvero il Mencey Belicar ispirò le statue, la Torre dell’Orologio racchiuderebbe un duplice messaggio: non solo la celebrazione della potenza veneziana, ma anche la memoria silenziosa di un popolo lontano, i Guanci, la cui voce stava per spegnersi sotto la conquista castigliana.

Purtroppo, la vita del re di Tenerife a Venezia non ebbe il lieto fine di una favola. Dopo alcuni anni fu trasferito a Padova, dove le cronache raccontano che morì di malinconia. Strappato alla sua terra, alla sua lingua e alle sue montagne vulcaniche, il Mencey non riuscì mai ad adattarsi. Eppure, se davvero il suo volto e la sua figura rivivono nei Mori dell’Orologio, la sorte gli ha riservato una strana forma di eternità. Da prigioniero dimenticato a simbolo immortale che scandisce le ore nella piazza più famosa del mondo.

 

Un rintocco che porta lontano.

Oggi, mentre ti fermi sotto la Torre e ascolti il rintocco metallico, puoi provare a immaginare questa storia. Non sono soltanto due statue a battere il tempo, ma forse l’eco di un re atlantico che trovò il suo ultimo destino in Laguna. La leggenda dei Mori aggiunge fascino a un luogo già unico. È un invito a guardare oltre la superficie, a scoprire come ogni pietra di Venezia nasconda legami insospettabili con popoli lontani e vicende dimenticate. Perché a Venezia, davvero, ogni ora che suona racconta non solo il tempo che passa, ma anche le storie che il mare ha portato fin qui.