Ad affermarlo non sono i turisti delle coste spagnole inebriati di sangría, ma scienziati della University of Vermont Computational Story Lab, guidati dal matematico Peter Sheridan Dodds.
Lo studio “Human Language Reveals a Universal Positivity Bias”, pubblicato lo scorso anno, ha preso in esame 24 lingue rappresentative di diverse culture del mondo, selezionando a campione 100.000 parole tra le più utilizzate in contesti comunicativi come social media, titoli di film, articoli di giornali, testi di canzoni (stiamo parlando di milioni di dati). In una scala di emotività di 9 punti che andava dalla parola più triste a quella più felice, sono state ulteriormente selezionate una serie di parole particolarmente popolari nelle rispettive lingue, stringendo il campo a 10 lingue.
A pari merito in tutte le lingue, risulta la tendenza a preferire parole felici rispetto a parole tristi. Detto questo, alcune lingue sono più felici di altre e lo spagnolo sembra essere la lingua più felice di tutte, seguito a ruota dal brasiliano (portoghese), dall’inglese e dall’indonesiano, per arrivare all’ultimo posto in classifica, dove troviamo il cinese. I primi studi sulle parole felici cominciano nel 1969, quando psicologi della University of Illinois, nell’elaborazione della cosiddetta “Ipotesi di Pollyanna” (la ragazzina protagonista del romanzo di Eleanor H. Porter che non perde mai la speranza, anche se la vita si abbatte impietosamente su di lei) arrivarono alla conclusione che gli individui tendono ad usare più parole positive che negative.
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E proprio nell’era dei troll e degli hater, la teoria delle parole felici trova un’inconfutabile conferma.
La gente, ovunque nel globo, tende ad usare più spesso parole positive rispetto a quelle negative. Francesca Passini